Edgardo Abbozzo

25 febbraio 1937 20 luglio 2004
Redazione LdM
28 febbraio 2023

Edgardo Abbozzo

è stato uno dei principali artisti europei ad occuparsi del rapporto arte-alchimia creando nuovi linguaggi artistici.

Stimolato all’amore per l’arte dalla madre pittrice, allieva di Arturo Checchi, studia prima all’Istituto d’arte, poi all’Accademia di belle arti Pietro Vannucci di Perugia, dove ha come maestri Domenico Caputi e Gerardo Dottori.

Nei primi anni Cinquanta iniziò l’attività artistica partendo da un informale che risentiva della lezione di Paul Klee e di Giuseppe Capogrossi, e dedicandosi anche alla scultura e alla ceramica.

Nel 1953 tiene, giovanissimo, la sua prima personale alla Sala della Vaccara di Perugia alla quale seguono altre mostre e i primi riconoscimenti da parte della critica.

Nel 1962, a soli venticinque anni, assume la direzione dell’Istituto d’arte di Deruta e nell’anno successivo, su invito della Triennale di Milano, espone a Buenos Aires e a Berlino. In questi anni entra in relazione con artisti come Lucio Fontana ed Edgardo Mannucci e con critici quali Giulio Carlo Argan, Politi, Tomassoni e Ponente.

Foto di Edgardo Abbozzo

Edgardo Abbozzo


Edgardo Abbozzo: paradosso e seduzione

di Andrea Baffoni

Sono tanti e articolati i temi riguardanti l’opera di Edgardo Abbozzo che la critica d’arte ha affrontato nel corso degli anni: dal rapporto tra arte e alchimia alla relazione con la storia e con esse le prospettive della scienza in riferimento alla natura, fino al problema dell’invisibile in virtù delle sue possibili declinazioni fenomeniche. Un percorso complesso, e ci piace qui sottolineare come tale complessità non sia sinonimo di complicatezza, piuttosto un qualcosa capace di scomodare presupposti non distanti dalle regole della matematica, complessità rispondenti a quei sistemi dove le interazioni delle parti determinano processi di trasformazione materica. 

Da questo punto di vista, l’opera di Abbozzo risponde pienamente ai principi di analisi delle dinamiche fisiche e ci riconduce, ad esempio, al problema della trasmutazione degli elementi che, declinata nel lavoro artistico, significa in sostanza rifarsi alla possibilità che ha l’essere umano di infondere un senso poetico alla materia inerte. E parimenti, restando nell’ambito della pura manualità, la capacità di intercettare la complessità di un materiale come l’argilla, predisposto alle trasformazioni, tanto formali quanto fisiche, nel passaggio complessivo dei quattro elementi che all’unisono concorrono nel definirne le componenti intrinseche.

Una posizione di analisi che non si contenti di padroneggiare la tecnica dal solo aspetto formale, ma piuttosto comprenderla anche dal versante intellettuale. E certamente essendo in genere l’artista, per sua stessa natura, non uno scienziato che opera attraverso fenomeni empirici, tutto dovrà necessariamente ricondursi a dinamiche di riflessione estetica e ricerca formale.

Da qui il complesso percorso iconografico di Abbozzo, maturato attraverso un costante dialogo tra il lavoro manuale e l’impegno intellettuale, nell’impossibilità di scindere la riflessione alla pratica elaborando metodologie che in più di un’occasione sono state ricondotte all’antico sapere dell’artista-alchimista. Nel 1991, non a caso, Vittorio Fagone parlava di “permutazione alchemica” rifacendosi a principi di analisi critica che, muovendo da Duchamp, giungevano a considerare il lavoro di Abbozzo come esempio moderno di un procedimento artistico dove alla “natura fisica delle cose” si accosta l’inevitabile “promanazione simbolica delle singole materie”[i]. Come a dire che un artista non può separare l’analisi filosofica della realtà da quella fisica. 

Così Abbozzo non si sottrae alla riflessione teorica pur restando saldamente legato alla produzione oggettuale, ma in virtù di ciò il suo lavoro andrà sempre più definendosi non tanto verso uno stile cristallizzato su formule consolidate, piuttosto in una continua oscillazione sperimentale tra pittura, scultura, grafica e installazioni, utilizzando materiali eterogenei di volta in volta adattati alla necessità comunicativa. Così possiamo dire, in un certo senso, che il filo conduttore del suo lavoro sia da ricercare proprio nella dimensione speculativa, in egual misura rintracciabile nelle differenti caratterizzazioni oggettuali. Le macchine, ad esempio, cui fa riferimento proprio Fagone, rappresentano quel confine sottile in cui cercare possibili risposte alla predisposizione creativa cui l’artista continuamente è sottoposto. Macchine come principio di moto ed esistenza, dove la componente tecnica risponde alla volontà di rimarcare la condizione vitale dell’inanimato quale paradosso sostanziale per comprendere quella complessità della materia cui inizialmente si faceva riferimento: la trasformazione chimica, in altre parole, come processualità che l’artista è in dovere di conoscere. 

Ciò appare ancor più evidente proprio nella dimensione derutese della ceramica, analizzata non solo come tradizione del vaso (anche in questo caso prendendone in esame la componente strettamente formale, accanto a quella simbolico-speculativa, come ad esempio nel caso della riflessione sul vaso alchemico o dell’operazione sui lustri come vero e proprio studio sulle possibilità di trasmutazione cromatica), ma anche attraverso quegli elementi concettuali che ne determinano le dinamiche attuative: il fuoco, ad esempio, che è poi sinonimo di luce e induzione energetica votata alla metamorfosi materica; il laser, come manifestazione del visibile nell’impalpabile; il movimento, immancabile condizione per l’esistere di ogni cosa. Componenti plastiche, insomma, scultoree poiché inglobanti lo spazio e pittoriche per il loro dialogare con lo spettro del visibile, ma non necessariamente tangibili.

D’altra parte, è proprio in queste componenti intangibili che si dipana il lavoro di Abbozzo, in quell’invisibile dal quale prendono origine le idee, motivo per cui, analizzando suo lavoro, appare significativo non tralasciarne la componente più autentica, ovvero la fase progettuale. Dai numerosi disegni, bozzetti, studi preparatori, emerge infatti quella freschezza tipica di chi non riesce a distanziare la parte immaginativa da quella esecutiva. Una delicatezza che l’artista trasferisce nelle sue figure filiformi, sculture ectoplasmatiche variamente ispirate ad una tradizione che affonda le radici nell’ermetismo come nello gnosticismo: “un’arte di pensiero”, la definisce Amedeo Anelli[ii], capace per questo di adattarsi alle tecnologie con la curiosità del fanciullo, sperimentando le nuove frontiere della contemporaneità e sfidando, per contro, il vuoto contenutistico verso cui il mondo dell’arte andava a guardare. Si allude con ciò a quel 1986 in cui Abbozzo, invitato da Arturo Schwarz, esponeva alla XLII Biennale di Venezia nella storica edizione dedicata al rapporto tra arte e scienza[iii], proprio mentre il panorama internazionale stava progressivamente declinando la componente di pensiero in favore di un ritorno alla pittura calibrato essenzialmente sulle nuove disponibilità economiche. Ed è pur vero che anche il nostro si presentava con la pittura, benché le opere in questione risalissero a più di un decennio prima[iv], ma il suo orizzonte restava quello di una dimensione filosofica del lavoro e non certo commerciale, indirizzata a portare avanti metodologie prossime ai linguaggi poveristi dove le componenti ambientali e architettoniche giocavano un ruolo di prim’ordine. Anche per questo, nel corso degli anni, la bidimensionalità dell’opera è andata sempre più conquistando un ruolo di tridimensionalità spaziale e con esso proprio quella componente intangibile che pur nella sua impalpabilità dimostrava ugualmente di appartenere allo spazio compositivo dell’opera, mostrandosi pertanto irrinunciabile. 

Oggi, in questo omaggio derutese all’artista che nel 1962, sessant’anni orsono, andava a ricoprire appena venticinquenne (il più giovane d’Italia), la carica di direttore dell’Istituto d’arte intitolato allo storico ceramista Alpinolo Magnini[v], i temi di Abbozzo vengono sviscerati attraverso un percorso che segue proprio l’andamento dello spazio espositivo: l’antica fornace Grazia. Quest’ultima, dialogando al di fuori del tempo nell’andamento ascensionale delle sue camere di cottura, diviene contenitore e contenuto, ed è innegabile che il lavoro dell’artista trovi qui una corrispondenza simbolica profonda, calibrata sui processi di studio dei materiali e sulle componenti speculative ad essi collegati. La fornace in quanto luogo della trasformazione, con i suoi continui rimandi ai quattro elementi a cui sommiamo la dimensione impalpabile delle idee, la “quintessenza”, come a tracciare un’ideale mappa di evoluzione conoscitiva. Un percorso ascensionale che asseconda l’andamento dell’aria surriscaldata dal fuoco, spingendo fisicamente la materia verso la trasformazione, ma che parallelamente induce l’intelletto alla comprensione del “fenomeno” grazie alla riflessione sul “noumeno”.

Uno spazio, quello della fornace, che come un labirinto induce alla scoperta dei luoghi e in essi della dialettica dello stesso Abbozzo: dalle opere dedicate all’alchimia, alla pittura più recente, dalla parte progettuale dei disegni e bozzetti alle grafiche, cosi come l’ampia parte tridimensionale, con i marmi, le strutture filiformi, le ceramiche, i gioielli. Si scopre così la vertigine del paradosso, il terreno su cui l’artista ha edificato il suo linguaggio, concetto già espresso da Italo Tomassoni nell’affrontare il tema delle “macchine e bilance”: quel paradosso di voler “rendere visibile il funzionamento puro del pensiero”[vi]. Ecco, a noi sembra che, ancora oggi, il senso del lavoro di Edgardo Abbozzo risieda in quella opalescente zona d’ombra in cui si muovono gli ingranaggi dell’immaginario. Una stanza di vapori mercuriali, formule magiche, illusioni e incantesimi, uno spazio sospeso tra materia e pensiero, un luogo di “seduzione tattile”[vii]. L’arte che rapisce, abbaglia, incanta, produce meraviglia e stupore, ma che a volte inganna, come tutte le cose seducenti, depista lo sguardo, illude la mente, destabilizza il senso del reale. Così in Abbozzo nulla è per forza ciò che sembra e anche il suo lavoro, non si contenta di essere pittura, scultura, grafica, disegno, scrittura, ma ambisce ad essere pensiero materializzato, come un paradosso irrinunciabile chiamato a trovare perennemente il punto esatto di bilanciamento tra sogno e realtà, tra la luce che rivela l’opera e l’ombra che ne esalta il mistero. E così troviamo i laser, percepibili solo a patto che un velo fumoso li oltrepassi, oppure La macchina per vedere la luce, che sorprendentemente materializza un globo luminoso (un piccolo sole) mostrandone il passaggio sulla carta nel breve tempo in cui arde la fiamma della candela. Esperimenti magici di materializzazione delle dinamiche segrete del pensiero, o giochi di fisica, per riprodurre in piccolo le meccaniche dell’Universo.

È il gioco ironico di un artista serio, capace di divertirsi sperimentando e inadatto ad accettare i compromessi di un’arte ingabbiata nelle logiche del mercato. Libero come libera è l’immaginazione, anarchico come anarchica è l’indipendenza del pensiero, provocatore come provocatorio è chi non ha paura di liberare le idee dal freddo involucro degli stereotipi. 


[i] Vittorio Fagone, Pesi e luce, in Edgardo Abbozzo. Macchine e bilance, cat. della mostra, Volumnia, Perugia, 1991.
[ii] Edgardo Abbozzo. Figure, (cat. della mostra, a cura di Amedeo Anelli, Franco Bozzi, Italo Tomassoni), Perugia, 1997, pp. 11-15
[iii] Biennale Internazionale d’Arte di Venezia (XLII), direttore Maurizio Calvesi. Abbozzo partecipò nella sezione Arte e Alchimia, curata da Arturo Schwarz presso il padiglione centrale ai Giardini.
[iv] Le tre opere, presenti in questa mostra e riprodotte in catalogo, sono: Annunciazione dell’Opera, 1974; Albedo, 1974; Apertura dei vasi, 1975.
[v] L’Istituto d’Arte di Deruta, Alpinolo Magni, era stato fondato l’anno precedente, 1961.
[vi] Italo Tomassoni, in Edgardo Abbozzo. Macchine e bilance, cit.
[vii] Vittorio Fagone, Le nuove sculture di Edgardo Abbozzo, in Edgardo Abbozzo. Opere antiche e recenti (cat. della mostra, a cura di Amedeo Anelli, Vittorio Fagone, Italo Tomassoni), Electa Editori Umbri, Perugia 1990

 

 

 


La prima volta che mio padre mi portò a Deruta...

di Antonio Abbozzo

La prima volta che mio padre mi portò a Deruta, credo di non aver avuto più di cinque o sei anni. Era la fine degli anni sessanta, in estate. La scuola era finita ed io lo accompagnavo al suo laboratorio che all’epoca era in un fondo al piano terra di una piccola palazzina, posta alle pendici del paese.

Ricordo un locale luminoso, dove la polvere ed il fumo delle sigarette, unitamente all’odore dell’argilla ancora bagnata, dominavano e caratterizzavano l’aria.

Appoggiati a terra stavano dei pannelli di legno su cui erano appese ad essiccare lastre di ceramica, lavorata a bassorilievo.

In prevalenza si trattava di immagini sacre per le stazioni della “via crucis”, ma anche dei pezzi per rivestimento di altari, fonti battesimali, ecc. insomma, erano soprattutto opere di arredo sacro che a quell’epoca mio padre, aiutato anche dai suoi amici ed allievi dell’Istituto d’Arte, realizzava per alcune chiese di Foligno.

A terra, vicino ad una porta vetrata secondaria, c’era un vecchio giradischi ed accatastati lì appresso, molti  33 giri in vinile con in maggioranza canti popolari: le canzoni milanesi della “mala”, i ricordi romani di Gabriella Ferri, ma anche i Gufi ed Otello Profazio; i canti della Resistenza in un edizione del “Festival di Spoleto”; i canti degli Anarchici: “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà ed un pensiero ribelle in cor ci sta” e poi, la ‘nuova stagione’ con i primi dischi di Fabrizio de Andrè, con la “Canzone di Marinella” e la “Guerra di Piero”, di cui andavo già matto.

Poco sopra, attraversata la Tiberina, c’era un bar, dove mio padre andava sempre a prendere il caffè e dove spesso lo costringevo a comprarmi le gomme o il gelato. Vicino abitava uno dei miei più cari amici e futuro compagno di liceo, Fabrizio Ficola e spesso, quando mi annoiavo, andavo a giocare da lui.

Talvolta, quando poi aveva degli impegni da sbrigare alla Scuola, salivamo su in paese con la macchina fino alla vecchia sede dell’Istituto d’Arte che, più o meno, ricordo davanti all’ingresso di una chiesa di San Francesco e la gran parte delle persone ci salutavano cordialmente e molto spesso ci intrattenevano in piazza, a parlare o per un altro caffè.

Chi è pratico di come si svolge la vita di paese, comprenderà e non troverà niente di sorprendente in quello che sto narrando, ma comunque vorrei testimoniare quel qualcosa di più profondo che si è andato a consolidare nel tempo, ossia la nascita di un legame, tra questa città di Deruta e mio padre, che ancora oggi, a quasi venti anni dalla sua scomparsa ed a più di cinquanta dal periodo che sto descrivendo, è ancora    strettissimo, per entrambi.

Non penso di poter essere la persona più indicata a sottolineare l’eventuale influenza che mio padre può aver esercitato per la zona, con riferimento a tutto quello che potremmo definire come il recente, quanto evidente, rinnovamento nella produzione della ceramica artigianale e che cominciò a delinearsi già dai primissimi anni ottanta né, tantomeno, quanto e cosa possa aver lasciato, nella sua ulteriore veste di “uomo di scuola”, quindi, oltre che di artista, ai suoi allievi del locale Istituto d’Arte, ove ebbe il primo incarico quale Direttore a soli venticinque anni, ma posso certamente testimoniare quanto e come questo ambiente, che certamente può essere definito “di provincia”, abbia fortemente ‘partecipato’ e poi, a suo modo, condizionato tutto il percorso artistico di mio padre Edgardo nel suo prosieguo artistico.

Edgardo, infatti, aveva scelto, voluto e sempre ‘conservato’ questo ambiente per lavorare, malgrado  numerose occasioni avute per allontanarsi  da queste zone, dati anche gli alti incarichi di Dirigenza Scolastica  ricevuti per Firenze, Carrara e, per diversi anni, non disgiunti infine per Roma con l’incarico di Consigliere al Ministero della Pubblica Istruzione.

Posso altresì testimoniare che questa scelta è stata anche molto sofferta, soprattutto in termini di riconoscimenti e notorietà, in una regione che penso, non solo a mio parere, mostra spesso il difetto di guardare troppo altrove, non valorizzando quindi adeguatamente le sue risorse anche in precipui settori come: arte, artigianato, cultura, università, turismo, ambiente, paesaggio e quant’altro.

Ciò nonostante, Edgardo scelse ed io mi sono sempre domandato il perché, di mettere qui le sue radici e lavorare in simbiosi con questa dimensione territoriale, certamente più intima, ma sicuramente meno ricca di occasioni, almeno per chi, anche indirettamente, si nutre pure del riconoscimento degli altri nello svolgimento del proprio percorso di lavoro creativo.

A molti anni di distanza dalla sua scomparsa, dopo aver ereditato, non solo i suoi libri, ma anche la testimonianza di questo “affetto popolare” molto radicato e profondo, penso di avere sviluppato, nella mia immaginazione, una specie di idea sul perché di questa sua consapevole scelta.

Tra gli infiniti percorsi attraverso cui si può addivenire alla creazione di un’opera, che possa poi essere definita, d’arte, o più in generale, per stimolare un qualsivoglia processo creativo, cercando di sintetizzare e quindi nella speranza di non banalizzare un argomento così complesso, potremmo provare a definire due principali tipi di percorso.

Uno, forse il più attuale, è certamente quello che passa attraverso le cosiddette “contaminazioni”, ossia una sorta di continuo scambio tra diverse culture e quindi di influenze, tale da stimolare poi la fantasia a successivo beneficio della creazione dell’opera.

L’altro invece, di natura più intima e tradizionale, è quello che attinge proprio all’antica tradizione fondante sulla centralità dell’uomo all’interno del più vasto Universo, tradizione che ebbe il proprio momento di massima notorietà e splendore nel Rinascimento, ossia quando, con Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, si poté assistere al diffuso fiorire delle Accademie neoplatoniche in Italia e non solo, nonché all’affermarsi delle antiche sapienze ermetiche.

Raffaello stesso, nella “Scuola di Atene” ne fu tramite, sintetizzando forse al meglio quelli che erano i pilastri, filosofici e culturali di quel momento e che certo “l’uomo vitruviano” di Leonardo già simbolicamente racchiude.   

Costante e sensibile a questo pensiero, mio padre nell’osservarlo credo fosse fermamente convinto che, vivere in un territorio così isolato, come è appunto la “provincia”, lontana da influenze di varia natura, potesse aiutare a stimolare ed in qualche modo favorire quel processo “introspettivo” propedeutico, oltre che connaturato, alla creazione dell’opera d’arte assoluta ed immutabile in quanto tale.  

Questa mostra, non tratta della produzione ceramica di Edgardo, che è stata già in qualche modo affrontata in precedenti occasioni e che comunque trova una importantissima e ricca testimonianza all’interno del Museo di Deruta, ma ripropone invece alcune opere pittoriche, in tecnica mista e risalenti ai primi anni 70, quindi sempre legate al suo periodo derutese, le quali costituiscono, a mio modesto parere, le fondamenta su cui è poi nato e si è caratterizzato l’intero suo percorso artistico.

Il tema di queste opere è quello dell’Alchimia, tema quindi, per sua stessa natura, molto ostico da comprendere a fondo, poiché mescola in sé diverse tipologie di conoscenza ed un antico linguaggio, quasi sempre oscuro ed enigmatico, che è quello della simbologia piuttosto che della scrittura e, per questo motivo, molto complesso da studiare e, conseguentemente, poco divulgato, per cui risulta scarsamente conosciuto dai più.

Per cercare di rendere più fruibile il percorso di questa mostra e far tornare un po’ le cose con quanto detto sopra, occorre, anche in questo caso, tentare un ulteriore semplificazione del discorso, che forse non troverà completamente d’accordo gli esperti della materia, ma che spero almeno possa aiutare, i giovani fruitori della mostra, ad avvicinarsi a delle opere che non sono fatte, almeno in prima istanza, per lusingare l’occhio, ma altresì per giungere, sempre attraverso l’occhio, direttamente alla mente ed al cuore dello spettatore.

L’alchimia si fonda su due principi cardine, il primo e più importante è un Principio Assoluto, che è “legge” unica dell’universo e che guida la materia e tutti gli esseri, l’uomo al centro, attraverso un lento, ma costante progresso evolutivo, all’interno del quale in qualche modo ricade anche la creazione e gli aspetti ad essa connessi. Il secondo, è un principio di analogia e corrispondenza, riportato tradizionalmente nella tavola di smeraldo, attribuita ad Ermete Trismegisto: “…. ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare il miracolo della cosa unica.”.  

Ma allora, se ciò che è in “alto” è come ciò che è in “basso” e la legge che regola l’universo è unica, cosa manca all’uomo per elevarsi e raggiungere il platonico “mondo delle idee”, in cui vi sono le “idee” immutabili e perfette?

Detto mondo era ritenuto da Platone raggiungibile solo dall'intelletto ed in genere non tangibile dagli enti terreni e corruttibili, pertanto richiede una capacità e conoscenza specifica ed un metodo che, pur insito nell’uomo, è ad esso celato dal costante sopravvento, al suo interno, dalle passioni interiori e più ancora dai problemi della quotidianità (che gli alchimisti definivano come “metalli”).

L’isolamento dal frenetico e cosiddetto “mondo delle passioni” - e proprio qui sta il punto della scelta di vita di mio padre - è il primo passo per avviare un processo di ricerca interiore, che passa simbolicamente attraverso le fasi alchemiche e che, se intimamente comprese e quindi messe in atto, consentono di “creare”, attingendo direttamente dal “mondo delle idee”.

L’ermetismo, come l’alchimia, dietro un linguaggio spesso difficilmente comprensibile, trattano una materia, si complessa, ma anche molto diffusa: questa materia si chiama “Uomo”.

Nel mito alchemico della trasformazione del piombo in oro, c’è la metafora dell’umanità che progredisce seguendo questa legge unica dell’universo, ma nel contempo, si trova anche l’acquisita piena consapevolezza che vi sia la possibilità di poter accelerare i tempi lenti della natura in questo processo; e ciò proprio in virtù dell’acquisizione e messa in pratica di uno specifico metodo, l’Alchimia, che ne consente la realizzazione della possibilità.

Certamente l’Umbria e Deruta in particolare, sono state il “forno alchemico”, l’Atanòr, da cui ha preso forma e consapevolezza l’intero percorso artistico di Edgardo Abbozzo.

Alla città di Deruta che mai si sottrae dal patrocinare siffatte iniziative per mio padre e che di nuovo si è impegnata in questa felice partecipazione, rivolgo il mio più sentito e caloroso ringraziamento, e così ad Andrea, Carla e Francesco ammirevoli organizzatori dell’evento, con un forte incoraggiamento per una intelligente ‘prosecutio’ su questa strada.                                                                                                                                                                                                                                                                            Antonio Abbozzo

 

 

 


Magisterium. Quartetto d’arte con un assolo.

L’ultima intensa mostra progettata in vita da Edgardo Abbozzo: una testimonianza

di Emidio De Albentiis 

È un sentimento gioioso venato di malinconia e di rimpianto ciò che mi fa riandare con la memoria a quell’inizio d’estate del 2004: Edgardo Abbozzo aveva concepito un bellissimo progetto espositivo, raccogliere nelle sale più belle disponibili a Perugia a tale scopo – il complesso monumentale del CERP nella Rocca Paolina – quattro esperienze di alcuni suoi giovani ex allievi dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia a cui affiancare qualche sua opera. Edgardo era stato fino al 2002 Direttore di quell’antica Istituzione e vi aveva insegnato scultura per una quindicina d’anni (1984-1998): a tessere le fila di quel progetto Abbozzo volle chiamare me, anche perché di tre di quei suoi quattro ex studenti (Roberto Albanesi, Federico Della Bina, Luca Santanicchia; la quarta era Roberta Sensi) ero stato a mia volta insegnante nella mia parte di carriera svolta all’Istituto Statale d’Arte “Bernardino di Betto”. Trovai un titolo alla mostra che molto piacque a Edgardo, Magisterium. Quartetto d’arte con un assolo, e mi occupai di sviluppare criticamente le loro proposte artistiche: ma per Edgardo Abbozzo pensai di far emergere la sua densità di pensiero e la sua più profonda natura di artista attraverso un’intervista che fu davvero emozionante e ricca di cultura e di umanità. Perno di quello scambio di idee fu proprio un tema antico e sempre discusso, del tutto inerente al titolo dell’esposizione, un’articolata riflessione sulle modalità (e le difficoltà!) di come insegnare l’arte a dei giovani, nel rapporto sempre complesso tra un Maestro e un Allievo.

Ci incontrammo varie volte nel suo magico studio di via Appia, un luogo dove la memoria dei retaggi più ancestrali si mescolava all’indagine sul futuro che caratterizzava Edgardo così intimamente e propositivamente. L’atmosfera di quegli incontri fu davvero entusiasmante, imparai moltissimo da quei dialoghi, e gli stessi suoi ex studenti rivissero le emozioni dei loro giorni d’Accademia. Ma questo clima si spezzò d’improvviso il 20 luglio 2004, quando il catalogo era ormai in stampa: Edgardo ci aveva purtroppo lasciato e al calore di quei giorni si sostituirono quella malinconia e quel rimpianto di cui ho parlato all’inizio. E le pagine di quell’intervista divennero loro malgrado l’ultima testimonianza di una vita, come ancora si può leggere nel colophon: “(…) crediamo opportuno non modificare di una virgola i contenuti del catalogo, dedicando con ciò alla memoria di Abbozzo questo suo ultimo grande atto di amore per la vita e per l’arte: le intense parole sulla didattica artistica rilasciata ad Emidio De Albentiis costituisce il lascito spirituale di Edgardo Abbozzo, che aveva voluto fortemente questa mostra soprattutto per sottolineare il valore della ricerca di quattro suoi giovani allievi dell’Accademia”.